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Un giorno ti racconterò

Un giorno ti racconterò

Giulia è nel taxi che la sta portando all’aeroporto, alla radio il tormentone del momento, Despacito. Arrivata di corsa al check-in, sente l’annuncio che il suo volo è in ritardo di ben due ore. Giulia – bionda, affascinante, vivace e sognatrice – non si lascia abbattere, cerca un posto a sedere per poter comodamente fare telefonate, mandare messaggi e controllare i suoi profili social. Un quarto d’ora più tardi si siede accanto a lei una ragazza “avvolta in un burka” con occhi profondi, neri e un sorriso disarmante, anche lei in attesa per il ritardo del volo diretto a Teheran. Nasce un’immediata simpatia, che le porta a commentare e ridere insieme, anche se, quando Yasmeen si allontana e parla al cellulare nella sua lingua d’origine, a Giulia viene in mente che potrebbe essere una donna kamikaze e le sale l’ansia. In pochi attimi ha flash del suo passato, pensa alle persone importanti della sua vita, poi per ingannare il tempo scrive un post. Finita la telefonata, Yasmeen le racconta che l’hanno chiamata da Teheran per farle sapere che un suo caro amico è stato ferito durante una manifestazione politica. Continuano a parlare, approfondendo la loro conoscenza e a un tratto Giulia viene avvicinata da…

Un giorno ti racconterò è il romanzo di esordio di Dora Esposito, blogger e influencer. La protagonista è una quarantenne bionda, eclettica, che racconta, (anche a chi ha appena conosciuto!) di sé, delle sue relazioni, della vita presente e passata, delle persone che incontra e dell’assenza del padre deceduto dal quale ha sempre cercato approvazione. La narrazione è frammentata, come una sequenza di post o poco più, intervallata da “aforismi”, quasi tutti riportati nel risvolto di copertina, massime e sentenze che riassumono o racchiudono considerazioni e osservazioni di saggezza popolare. I personaggi sono appena abbozzati, i concetti ripetuti più e più volte, il lessico è monotono, povero, spesso sgrammaticato e approssimativo, senza alcuna attenzione alla scelta delle parole, con una superficialità che rischia di essere offensiva. Tanto per fare un paio di esempi tra i tanti, prendiamo nelle prime pagine il termine “burka” che l’autrice usa per indicare il velo indossato dal personaggio Yasmeen: beh, leggendo la descrizione della giovane donna che segue si capisce che in realtà si tratta di chador o hjiab. Ancora, sempre per lo stesso personaggio, scrive che parla la lingua “iraniana”, ma in Iran la lingua parlata è il persiano, iraniana è il sostantivo usato per indicare l’abitante o la nativa dell’Iran. Se tali trascuratezze possono essere (moderatamente) passabili nella lingua parlata colloquiale, o sui social con molti follower poco attenti ai particolari, non è più accettabile nella stesura di un libro, che, per quanto possa essere rivolto a un pubblico di cultura media, richiede un lavoro accurato e preciso, risultato che può essere facilmente raggiunto con un minimo di impegno grazie a una semplicissima ricerca online o, se si vuole proprio esagerare, a un tradizionale vocabolario cartaceo.