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Un tram per la vita

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Roma, 16 ottobre 1943. Sono gli spari, fortissimi, a svegliare Emanuele nel cuore della notte. Quando lui apre gli occhi, la mamma si è già alzata e osserva dalla finestra quello che sta accadendo per le strade. Poco dopo si ritira e chiude le imposte, rassicurando i figli e passando una mano amorevole sulla fronte di Nando. Da quando suo fratello quattordicenne si è ammalato, pensa Emanuele, la madre lo tratta come se fosse un bimbo piccolo e ha mille attenzioni concentrate su di lui. È come se gli altri figli fossero diventati in parte trasparenti. D’altra parte sua madre si comporta sempre così: quando, tempo, addietro, si è ammalato lui, è stato per tutto il tempo della convalescenza il pensiero fisso della madre, che non si allontanava dal suo capezzale e si adoperava in ogni modo per aiutarlo a guarire più in fretta possibile. Emanuele resta accucciato sotto le coperte, ma non è per il freddo del mese di ottobre, che a dir la verità non si è ancora fatto sentire, ma perché il suo cuore è come impazzito e batte fortissimo. Quando, più tardi, la voce della mamma rompe di nuovo il silenzio della casa, lo fa per annunciare che i tedeschi, giù in strada, stanno portando via gli uomini. Ora, infatti, si sentono i colpi picchiati sulle porte con il calcio del fucile e gli ordini dei soldati tedeschi, duri e taglienti. La mamma deve raggiungere Termini e il papà: occorre avvertirlo di starsene alla larga dalla zona di casa, per evitare il rischio di essere catturato. Il padre di Emanuele – che è andato a lavorare nonostante sia sabato, giorno dedicato al riposo, secondo la religione ebraica cui la famiglia del ragazzino appartiene – fa l’ambulante: vende souvenir ai tedeschi che arrivano in stazione con le tradotte e ai soldati che arrivano dal fronte. Vende portachiavi, pettini, cartoline; spesso lavora di notte, quando arrivano i treni, e rincasa verso mezzogiorno. Ecco, oggi è meglio che non si faccia proprio vedere nei paraggi della propria abitazione…

La storia dell’ultranovantenne Emanuele di Porto, che nel 1943 sfugge alla furia violenta dei tedeschi - arrivati nel ghetto di Roma per fare razzia di ebrei - grazie al coraggio della madre è cosa nota. Si tratta di una vicenda che il protagonista, soprannominato “il bambino del tram”, racconta da oltre settant’anni e che finalmente è diventata un libro. Ci ha pensato Tea Ranno – scrittrice siciliana da tempo residente a Roma, autrice di diversi romanzi di successo, sia per adulti che per ragazzi – a mettere su carta l’avventura di un dodicenne costretto, suo malgrado, a vivere esperienze più grandi di lui, legate all’orrore della guerra. Il piccolo Emanuele in fuga si rifugia su un tram e si affida al controllore. Il mezzo di trasporto diventerà, per tre giorni, il suo rifugio, una sorta di grembo materno che lo proteggerà dalla violenza del conflitto e gli offrirà la possibilità di salvarsi e riscattarsi. Attraverso gli occhi del protagonista i giovani lettori possono rivivere gli orrori della guerra, le violenze gratuite, le percosse e le umiliazioni cui un intero popolo, colpevole unicamente di appartenere a una religione diversa, è sottoposto. Ma tra le pagine del libro – scritto con uno stile semplice e proprio per questo particolarmente efficace – c’è spazio anche per la solidarietà, l’aiuto gratuito, l’amore e la speranza. La testimonianza di Emanuele diventa il riscatto di chi non ce l’ha fatta, il grido di speranza di chi ha sacrificato la propria vita in nome della libertà, quella di cui oggi ciascuno può godere proprio grazie ai piccoli gesti eroici delle persone comuni di un tempo. Una lettura intensa, che commuove e induce alla riflessione; pagine che celebrano l’amore materno e anche quello più universale, che dovrebbe muovere il mondo e, soprattutto, evitare il perpetrarsi di tragedie tanto assurde quanto dolorose come quella di cui Emanuele di Porto è testimone vivente.