
È andato da lei tutte le volte in cui ne sentiva il bisogno. Quando faceva troppo caldo o quando un’alluvione rischiava di portare via tutto. Quando Luce si è diplomata, poi quando ha superato il test di ammissione all’università. Quando si è accorto che suo padre cominciava a perdere colpi e quando litigava con sua madre. Quando era triste o aveva fame o sete o sonno. Carlo è andato mille volte da Viola, da solo o insieme a Luce, sua figlia. Anche oggi è lì da lei e non trova la forza di andarsene. Si è seduto su una panchina, davanti alla lapide di uno sconosciuto. Una donna si rivolge a lui e comincia a parlargli di Piero, suo marito. Sono stati insieme quarantotto anni e lei, anche ora, continua a comunicare con lui. E Piero le risponde e le dà sempre ragione. Carlo sorride e le racconta di Viola, sua moglie. È sepolta lì ed era una donna coraggiosa, la più coraggiosa di tutte: ha sacrificato se stessa per salvare la figlia. Marion, questo il nome della donna, annuisce. Poi lo rassicura: sa bene quanto sia difficile parlare dei propri cari che se ne sono andati. È difficile anche se la loro morte è avvenuta in maniera meno plateale di quella di Viola, che si è tolta la vita affinché il suo fegato potesse venire trapiantato a Luce in tempo per essere salvata. È difficile sempre, perché le persone evitano il dolore e, quando danno conforto a chi ha subito un lutto, pensano che imporre la loro presenza sia sufficiente; non si rendono conto che la mancanza persiste e resiste anche in mezzo alla confusione. È la prima volta, dopo tanto tempo, che Carlo è impegnato in una conversazione piacevole. Se ne sta a lungo lì, su quella panchina, in compagnia di una sconosciuta con cui probabilmente ha molto in comune. Gli piace ascoltare quell’anziana signora che sa perfettamente quanto sia complicato immaginare di vivere in un mondo in cui la persona con cui hai trascorso buona parte della tua vita non c’è più. Da quando Viola è morta, Carlo si sente come un libro stampato su carta scadente, pieno di refusi e di illustrazioni sfuocate. Accanto a Marion, però, non prova timore, perché lei pare non dare alcuna importanza al disastro che lui è diventato...
Chi conosce Sara Rattaro - prolifica scrittrice genovese, vincitrice del premio Bancarella 2015 - sa quanto bene le riesca raccontare i sentimenti, le ferite dell’anima e le complesse relazioni umane. E l’ha fatto anche nel 2012, anno in cui i lettori hanno fatto la conoscenza di Viola, Carlo e Luce - loro figlia - e ne hanno seguito le vicende. E, dieci anni dopo, l’autrice torna a visitare la vita di Carlo, la scruta, l’analizza e ne mostra al lettore ogni anfratto, anche quelli meno evidenti ma capaci di mostrare le crepe di un uomo che ha perso la compagna di vita e ha dovuto inventarsi una nuova quotidianità, fondata sull’assenza. Viola ha sacrificato se stessa per salvare Luce e Carlo è colui che ha pagato il prezzo più alto: le sue certezze si sono sbriciolate e ancora non è riuscito a fare pace con la consapevolezza che la moglie, quella donna algida e apparentemente incostante che tutti ricordano, fosse ben altro rispetto a ciò che di sé permetteva si intravedesse. Occorreranno tempo, fame di vita, voglia di mettersi in discussione e apertura verso la saggezza, la curiosità e il calore di personaggi come la splendida Marion, il curioso Giacomo e la paziente Beatrice per ritrovarsi e per comprendere che quella che si stringe tra le dita, questa volta, è una mano vincente. Una lettura intensa, capace di commuovere e invitare a interrogarsi su quanto ci si possa spingere per amore, su come sia importante fare pace con il proprio passato e sul valore della condivisione, capace di spartire il peso del dolore e renderlo maggiormente sopportabile. Pagine che scorrono rapide e lasciano nel lettore, appena arrivato all’ultima riga, il desiderio di ricominciare da capo, in attesa che una nuova storia, figlia della fantasia della Rattaro, arrivi a fargli compagnia e ad accarezzargli l’animo.