Salta al contenuto principale

Una cosa da nascondere

Una cosa da nascondere

È un luglio caldissimo che smentisce tutti i luoghi comuni sulla Gran Bretagna quello che attanaglia Londra e sfianca i suoi abitanti, tutti senza distinzioni, ricchi poveri e vie di mezzo. E se fuori fa caldo, in casa Bankole il clima è addirittura incandescente: Abeo, capofamiglia legato morbosamente alle tradizioni, sta martellando da settimane il figlio Tanimola perché dimostri al mondo chi è un Bankole. Gli rinfaccia di essere un ingrato, di non apprezzare la relativa ricchezza in cui vive grazie alle attività di famiglia, Into Africa Groceries, un banco di macelleria e uno di pesce al mercato di Ridley Road, gli viene perfino concesso di tenere per sé un ottavo del salario e la madre provvede ad ogni necessità di nutrimento pulizia e quant’altro. Tutto ciò dovrebbe far sì, sempre secondo il padre, che lui lavori a uno dei due banchi, sposi una ragazza che non ha mai visto per la quale Abeo ha pagato un salato “prezzo della sposa” a garanzia della sua purezza e fertilità. Poco importa all’uomo che vivano a Londra da quarant’anni, sono nigeriani e le leggi che vanno seguite sono quelle del suo Paese. Tani non sa nulla di quanto ha in mente il padre, non vuole certo lavorare al mercato, lui pensa a laurearsi e come dire in famiglia che ha una relazione con Sophie, che oltretutto non è neanche lontanamente nigeriana. In casa la situazione se possibile è ancora peggiore: Monifa si attiene scrupolosamente a quello che richiede l’essere moglie, il che implica fra le altre cose sapere esattamente a che ora rientrerà il marito, servirgli qualcosa da bere e portare a tavola esattamente quello che lui desidera, senza naturalmente che le venga detto cosa sia. Simisola, otto anni, deve accogliere papà e fratello con il silenzio rispettoso di una brava bimba che ha obbedito alla mamma. Dopo aver alla moglie che l’affare è stato concluso e presto porterà il figlio in Nigeria a conoscere la sposa...

Cinque anni di attesa per una nuova indagine dell’ispettore Lynley e nelle prime cento pagine non c’è neanche l’ombra né dell’ispettore né di Barbara Havers o Wiston Nkata, giusto un po’ di Deborah St. James che sta portando avanti un progetto con il ministero dell’istruzione, ma poco. Ho meditato se fare o meno un lancio del libro dalla finestra, ma usando un kobo ho soprasseduto e... ho fatto bene, ma bene davvero. Ero a quel punto curiosa anche di come avrebbe combinato la lunghissima prima parte con le indagini della Met. Missione compiuta alla grande, le successive quattrocento e rotte pagine sono carta moschicida, non ti stacchi. L’argomento è tosto soprattutto se si pensa che la vicenda si svolge a Londra. L’esplorazione di un mondo che ci fa orrore e preferiamo relegare a una tradizione tribale che non ci riguarda e invece è tremendamente presente. La trama (al di là del giallo che è magistrale), come sempre si intreccia con la sociologia e già da qualche romanzo, con una particolare predisposizione a combattere il razzismo. Seguo la George sui social, è una dem molto attiva che a volte rasenta la violenza nelle sue esternazioni contro i repubblicani e ovviamente è attivissima anche sul fronte antirazzismo. Qui ho trovato quella che potrebbe essere l’unica pecca del romanzo. Il tentativo di far comprendere, di avvicinare i suoi lettori alla cultura africana, nigeriana nello specifico, sottolineandone la parte sana e condannando pesantemente antiche e crudeli usanze – evito lo spoiler anche se è intuibile - ottiene l’effetto opposto. Il bene non fa notizia, il bene non rimane impresso, l’eroe buono lo dai per scontato. In compenso l’orrore di certi atteggiamenti di retaggi culturali che purtroppo resistono a qualunque tentativo di civilizzazione ti restano impressi a fuoco. Il ritratto dei nigeriani in particolare ma degli africani in genere che vivono in Inghilterra (ma potrebbe essere l’America o l’Europa) è proprio brutto. Gente che non vuole integrarsi, che vede in chiunque non sia nero un nemico, qualcuno da sfruttare ma tenere lontano. Il problema temo è che chi ha nell’animo anche solo una briciola di razzismo leggendo questa storia si sentirà legittimato a sentirsi superiore, avallato nel suo considerarsi migliore. E questo, devo dire, mi dispiace assai.