Salta al contenuto principale

Una mappa per Kaliningrad

Berlino, 2018. È mercoledì sera e diluvia. In un locale saturo di rumore e di fumo, Valentina sta spiegando ai suoi amici Giada, Julien ed Elle che qualche giorno dopo partirà per Kaliningrad. È in Russia, ma prima della guerra – quando ancora si chiamava Königsberg – era in Prussia, si trova a soli 527 chilometri in linea d’aria da Berlino. Perché proprio a Kaliningrad? C’è stato suo nonno in un campo di prigionia tedesco proprio là, alla fine della seconda guerra mondiale, lo Stalag 1° di Stablak. Lo hanno liberato il 9 aprile 1945 e lui ci ha messo sei mesi a tornare a casa in Italia, è arrivato il 15 ottobre dopo un giro assurdo. Valentina sarà là per il 9 maggio, il “Dien pabiedi”, il Giorno della Vittoria sui nazifascisti. Ricorda perfettamente i racconti di guerra del nonno quando lei era bambina, soprattutto quelli che arrivavano a Natale, quando contemplando la tavola imbandita immancabilmente l’uomo si incupiva, sospirava pensando alla fame patita durante la prigionia ed esordiva con un “L’è staa minga semper inscì” che dava il via al fluire dei ricordi. Tra i preparativi per la partenza di Valentina, c’è la ricerca su internet che la porta a scaricare la piantina del campo di concentramento di Stablak: esiste persino un bollettino mensile delle memorie degli ex prigionieri belgi del campo, “Ceux de 1A”. Lo Stalag 1° detiene il primato di lager più settentrionale del III Reich: vi scontarono la prigionia moltissimi soldati italiani deportati dopo l’8 settembre 1943 come Italienische Militär-Internierte (IMI) – in tutto furono 600.000, su 810.000 catturati dopo l’armistizio dai soldati tedeschi – negando loro lo status di Kriegsgefangener (KG), ovvero prigionieri di guerra posti sotto la tutela della Croce Rossa Internazionale. Trattati da traditori, feccia umana, pura forza lavoro tenuta in vita con un sostentamento minimo o meno che minimo…

La deportazione, la prigionia e il ritorno a casa degli IMI è un capitolo ancora per certi versi oscuro e sicuramente non edificante della Storia italiana. Valentina Parisi, che è assegnista di ricerca in letteratura russa presso l’Università degli Studi di Pavia e ha tradotto dal russo opere di Alexandra Petrova, Lev Šestov, Pavel Florenskij, Léon Bakst, Pavel Sanaev, Vasilij Grossman, Anton Čechov, Vasilij Golovanov e, dal polacco, testi in prosa di Wisława Szymborska, Adam Zagajewski, Hanna Krall, Stanisław Lem, dà un suo piccolo contributo a fare luce su questo capitolo. Ma lo fa sottovoce, a tratti sembra persino farlo suo malgrado. Perché questo reportage nello spazio, nel tempo e soprattutto nella memoria è più un racconto privato che un saggio: solo incidentalmente si affronta la Storia con la S maiuscola, al centro ci sono i ricordi e i racconti. Non solo del nonno dell’autrice, ma anche di altre persone che la Parisi incontra nel suo viaggio. Un viaggio a Kaliningrad/Königsberg (dove è nato e morto Immanuel Kant) corredato da splendide seppur piccole fotografie e aneddoti malinconici (o persino bizzarri, come la cura dell’ippopotamo dello zoo Hans a suon di litri di vodka) che documentano il non facile, anzi a tratti doloroso, passaggio della città dalla Germania all’URSS ma comunque ne certificano il fascino unico.