
Una folla di bambini si imbarca su una grande nave di nome “Mexique”. Hanno valigie pesanti, salutano i genitori, molti piangono. Hanno detto loro che è una vacanza, che staranno via solo tre o quattro mesi, che poi potranno rivedersi. I loro piccoli volti sono tristi, altri indecisi, altri timorosi. Guardano dal ponte, cercano nella moltitudine rimasta a terra le facce di mamma e papà, ma mentre la nave si allontana diventa sempre più difficile, gli adulti diventano minuscoli, puntini che sembrano stelle. E i bambini sulla nave, che prima non si conoscevano, piano piano diventano tutti fratelli, si danno la mano, i più grandi si prendono cura dei più piccoli. A volte cantano, fanno il girotondo, dormono insieme e pensano che sia soltanto un sogno. Al mattino restituiscono le lacrime della notte al mare. Il mare che non finisce mai…
Fra il 1936 e il 1939 migliaia di esuli dovettero abbandonare la Spagna a causa della Guerra civile combattuta dai nazionalisti contro i repubblicani, che portò in seguito alla dittatura franchista. Il primo Paese ad accoglierli fu la Francia, che non fu in grado di gestire un tale esodo di massa e convinse molti rifugiati a cercare asilo in nuovi Paesi. Il Messico fu lo stato che si distinse maggiormente per l’accoglienza verso gli spagnoli, non riconoscendo mai il regime di Francisco Franco e supportando i nuovi governi della Repubblica nati in esilio. Fu inoltre l’unico Paese ad opporsi alla linea di non intervento sostenuta da Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna. In Messico venne costituito un Comitato di aiuto al popolo spagnolo che il 7 giugno 1937 accolse nel porto di Veracruz 456 bambini fra i sei e i dodici anni, orfani di combattenti della repubblica, a bordo della nave francese “Mexique”, salpata dalla città di Bordeaux. I “bambini di Morelia”: così vennero ribattezzati e così vengono ricordati, dal nome della città messicana che li accolse. Un ritiro forzato il loro che sarebbe dovuto durare pochi mesi e che si trasformò in esilio definitivo. Alcuni provarono a ritornare in Spagna solo decenni dopo la guerra senza più riconoscere il proprio paese di provenienza, né i propri familiari. Maria José Ferrada in questo bel libro illustrato da Ana Penyas parla di bambini ai bambini, parla di guerra, di abbandono, di angoscia, parla della “Storia” con la S maiuscola e lo fa attraverso il linguaggio poetico delle parole e delle immagini. Regalandoci uno spunto di riflessione autentico sul presente, senza avere paura di affrontare argomenti tristi, delicati e impegnativi con i propri figli.