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Una specie di follia

Una specie di follia

Québec, dicembre post-pandemia. Il chiasso aumenta nel palasport, mentre il commissario Gamache e l’ispettore Lacoste, responsabili del servizio d’ordine, sorvegliano la folla in ebollizione e attesa, aiutati da colleghi disseminati in punti strategici. Un evento che non avrebbe dovuto essere autorizzato, ma che nessuno aveva il diritto di proibire. La sala è surriscaldata e le finestre sigillate, non si respira, la situazione è tesa anche se non ancora pericolosa, ma è necessario prestare massima attenzione affinché non lo diventi. Gli spettatori scalpitano e sgomitano per garantirsi una buona visuale sul palco, volano qualche spintone e qualche gomitata, e Gamache e Lacoste condividono la stessa sensazione di disagio e preoccupazione. Almeno in centocinquanta sono ancora in fila all’ingresso, come l’ispettore Beauvoir ha stimato dall’esterno, dove è stato collocato – esiliato –, ma nel palasport sono già entrati in quattrocentosettanta, e ci sono anche dei bambini, i più vulnerabili in caso di parapiglia. Tutti sono stati perquisiti e non sono state introdotte armi, ma il livello di attenzione della Sûreté du Québec è alto. Mancano cinque minuti alle sedici, è il momento per Gamache di decidere se dare o no il via libera alla conferenza. Non ha parlato – non ha voluto parlare – con la professoressa Abigail Robinson, l’esperta di statistica le cui discutibili teorie hanno inspiegabilmente attirato tanta gente in un periodo di vacanza. Tuttavia la conferenza può iniziare. Ça va bien aller. Andrà tutto bene...

Diciottesimo capitolo della serie dedicata al commissario Gamache e ambientata a Three Pines, immaginario paese canadese, ma il successo ottenuto mostra che Louise Penny non perde un colpo: ha ancora davvero tanto da raccontare senza ripetersi, anche se stavolta la pandemia ha fornito un buono spunto e materiale nuovo. Sicuramente lo stile è sapiente, e la Penny sa usare bene parole e figure retoriche, peccato per i dettagli lasciati in sospeso e poco comprensibili per chi non ha letto i precedenti, e tante pagine sprecate in particolari ridondanti e ripetizioni inutili. La trama è sicuramente avvincente, il percorso investigativo ben condotto con una buona dose di acume, ma le prime duecento pagine, sebbene qualche elemento di suspence e tensione, sono estremamente lente e introduttive, quasi “preparatorie” e per arrivare al punto in cui cattura davvero il lettore bisogna superare la metà. Le descrizioni sono dettagliate: i personaggi ben caratterizzati – con un’attenta analisi psicologica –, i paesaggi sono dipinti, ma anche i momenti e i fatti, talvolta raccontati come a rallentatore, in un effetto di slow motion. Il rapporto tra dialoghi è testo è sbilanciato verso quest’ultimo e il disequilibrio contribuisce alla lentezza, a scapito dell’azione. Dispersivo e ridondante in alcuni punti, poteva essere sfoltito, snellito da flashback e brani isolati dal resto e incuneati a forza nella narrazione ma da essa slegati. Eugenetica, suicidio di massa, eutanasia, implicazioni etiche di alcune decisioni politiche, libertà di pensiero: argomenti forti e di grande impatto su cui riflettere anche al di fuori della storia. Cosa si è davvero disposti a fare, e a sacrificare, per proteggere chi si ama?