
Si apre il libro nella stessa maniera in cui si solleva la cornetta del telefono per rispondere a una telefonata che ci raggiunge improvvisa una mattina di un giorno qualunque. La voce poetica che ci giunge dall’altro capo del telefono è quella di una donna sola con le sue parole: “Io con le parole faccio cose/ con le parole svuoto una stanza/ con le parole compio una danza/ cucino un risotto, vado al ridotto. / Con le cose faccio parole: / scelgo un baule / e lo riempio di sillabe nuove”. Parole che pare possano ancora difenderla dalle ingiurie di un destino avverso: “Lo dovevo sapere / che si vive senza pretese”. O sparse tracce di ricordi che arredino gli ambienti della consapevolezza del vuoto, del dubbio e dell’impotenza: “La mia testa / è come la mia casa / oggetti sparsi / pensieri in disordine / polvere sotto i tappeti, / anche se qui non passano preti”. Un sentimento di frustrazione prende possesso dell’animo, pervade la voce nel pur composto decoro di un lieve abbandono: “Portami dove sono già stata / dove tutto ha un senso / dove non c’è bisogno di”…
L’unità di lingua e di tono livella questa sorta di resoconto in forma poetica di Anna Toscano, docente presso l’Università Cà Foscari e collaboratrice di alcune testate giornalistiche tra cui “Il Sole 24 Ore”, che vanta al suo attivo altre raccolte poetiche. Il moderato rancore e la mesta indignazione delle pagine esprimono qui un modo di misurarsi con il limite invalicabile del passato. Significano venire ai ferri corti con il senso del nostro rapporto con il tempo, approdare alla testimonianza estrema dell’indissolubilità del vincolo che ad esso ci lega: ogni cosa si risolve in un vissuto che ci appartiene, per il poco - ma è tutto - che può valere questa appartenenza. Ovvero ciò che resta del contatto fugace ma essenziale che ad esso ci unisce in maniera insopprimibile e invincibile. Un legame “ultimo” che ci sembra di cogliere non solo in certi punti chiavi dei componimenti ma perfino sotto gli aspetti più strettamente formali dell’intera raccolta. Nella scelta dell’autrice di dissolvere quanto risulta ormai dolorosamente composto e furiosamente annodato, cercando per questa via di disinnescare la minaccia del residuo dolore.