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Un’imprecisa cosa felice

Un’imprecisa cosa felice
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Sono i primi di luglio del 1993. Nonostante la stagione estiva il clima è fresco e ventoso. Marta siede a ciglio strada, alla periferia del paese. Non ha una meta nè una direzione, nella giornata e nella vita. Ventuno anni tutti stretti in pochi chili nodosi raggomitolati davanti ad un blocco note su cui scarabocchia parolacce e schizzi spezzati e disordinati. L’unica auto che passa ha alla guida un tipo che puzza di alcool e che esibisce una grossa pancia e la facile ironia di un uomo che ha passato la mezza età e il limite della decenza già da un po’. La promessa di un bicchierino di whisky convince la ragazza a montare in macchina e seguirlo nel bar più vicino. Ernesto viene da un brutto lutto dal quale non si è ripreso, lo stesso è successo alla giovane. Lo stesso. Marisa è morta tre anni prima, in un modo idiota, un decesso stupido, banale, che ha scaraventato Ernesto e Marta in un limbo emotivo che non sembra accennare a cambiare di stato. Entrambi vorrebbero andare via da lì. Anche la madre di Nino se non c’è più, il cuore non le ha retto alla vista del marito di ritorno a casa dopo quindici anni e due figlie gemelle illeggittime, semplicemente. Nino gestisce quello che lui chiama il “bugigattolo delle cianfrusaglie”, uno di quei negozietti che nelle stazioni contengono tutta una serie di inutilità, dai cornetti rossi ai braccialetti di corda, souvenir di varia sorta e quelle palle che se le capovolgi ci vortica dentro la neve. Il 30 ottobre del 1991 lo aveva ricevuto in regalo il bugigattolo, e per lui era stato il regalo più bello che il padre potesse fargli, dopo il cavalluccio di legno che aveva avuto da lui prima che sparisse per la prima volta, quando era bambino. Sta seduto a guardare i treni, che non ha mai preso, e spere di non andare mai via da lì. Due lutti, due ragazzi ancora alle soglie della vita, Nino e Marta, si sono visti a scuola, e sono destinati a rincontrarsi ancora…

Un’imprecisa cosa felice è il primo romanzo di Silvia Greco, che pure intorno alla scrittura già si aggirava da anni; cabarettista in un trio femminile si accinge alla maturità ad affrontare il genere letterario per eccellenza. Un romanzo che conserva l’ironia, le frasi secche, brevi e d’effetto dello sketch, ma che non per questo dimentica la poesia, la profondità del racconto e la complessità del linguaggio della letteratura con la elle maiuscola, per narrare storie tutt’altro che leggere. L’incipit descrive già il tono e il ritmo che, tra momenti più e meno drammatici, non accenna affatto a perdere colpi: la morte è il motore dell’azione. Il grande nulla che generalmente è riconosciuto come la fine di tutto qui dà la prima spinta alle storie dei protagonisti, il campione di una umanità con storie normalmente assurde che la scrittrice lascia intuire più che folta. Il prologo ci espone tutta una serie di casi di morti strampalate, quelle che fanno sorridere a denti stretti, quelle che proprio non possono che far risuonare anche qualche scoppio di risata: inciampare nel filo del Folletto in piena dimostrazione a casa di una coppia di testimoni di Geova e precipitare dall’ottavo piano, scivolare per strada sulla cacca di un cane, cadere da una scala mentre si cambia la lampadina del bagno, morti che destano ilarità, per quelli che non sono personalmente coinvolti, ovviamente. Le persone che invece ne vengono travolte in questo caso sono due adolescenti, dei quali non si ha timore di raccontare insieme ai lati leggeri anche quelli intimi, con una delicatezza che tramuta senza forzature la tristezza in tenera empatia. Sulle onde del sentimento si seguono le vicende dei personaggi che, nonostante tutto, trovano una felicità, nel mondo, nel ricordo e nella vita, una imprecisa cosa felice da investire nel futuro. Una citazione iniziale e una finale accompagnano la lettura, presentando una Silvia Greco ben lucida sul mood che il libro deve mantenere, Fernando Pessoa con i versi di Fu un incanto ci descrive la sua idea di imprecise cosa felice, e Wislawa Szymborska con la La fiera dei miracoli traccia la complessità del mondo nella semplicità che solo la poesia può esprimere in termini tanto disarmanti.