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V13

V13

08 settembre 2021: inizia il processo per gli attentati parigini del 13 novembre 2015. Nove mesi, tanto è previsto che duri il processo, che si celebra nel palazzo di giustizia dell’Ile de la Cité. In mancanza di una sala abbastanza capiente, ne è stata allestita una temporanea nell’atrio, capace di contenere circa 600 persone. Luci bianche, nessuna finestra, panche strette senza posti assegnati: i giornalisti accreditati devono ogni mattina cercare un buon posto. Gli imputati sono 20: 6 non hanno risposto alla convocazione, magari sono morti tra lo Stade de France, i bistrot o il Bataclan ma, in mancanza di prove, rimangono imputati. 14 sono a processo, con imputazioni di diversi livelli di gravità. Tra loro, il protagonista è Salah Abdeslam, che all’ultimo ha gettato in un cassonetto la sua cintura esplosiva, dopo averla disattivata. Un ravvedimento tardivo? Il processo si apre con due settimane di ricostruzione dei fatti, a cura di poliziotti e medici coinvolti nella notte degli attentati. Poi, cinque settimane di ascolto delle parti civili: sopravvissuti agli attentati, congiunti, persone offese dagli attentatori a diverso titolo. Persone che cercano la verità, persone che hanno bisogno di razionalizzare la tragedia, persone che cercano un risarcimento, mitomani. La loro esperienza misurata in base alla quantità di danno che hanno subito. Settimane di racconti strazianti, raccapriccianti, con una preghiera, evitare se possibile le ripetizioni. Poi la parola agli imputati, gli interrogatori di personalità, la radicalizzazione, il bistrot in Belgio dove si incrociano i destini degli attentatori, gli avvocati dell’accusa e della difesa. Una giornata in cui interviene il presidente Hollande, sulle labbra degli attentatori che si sono fatti esplodere. Sono settimane lunghe, dalle quali non si può uscire uguali a prima...

I contenuti di queste pagine non sono del tutto inediti: Carrère, volontario reporter del V13, li ha pubblicati settimanalmente, in parallelo al processo, per la testata “Nouvel Observateur”. La sua cronaca è stata pubblicata anche in Italia, Spagna, Svizzera. Lo stesso autore, però, ha voluto dare ai suoi resoconti - molto giornalistici, sia nel metodo di costruzione sia nella cadenza - il respiro della letteratura, riunendoli in un testo fedele come un reportage ma che brilla di luce propria. La stessa che, per esempio, si trova ne L’avversario. Anche in quel caso, fine anni Novanta, Carrère si era fatto avanti spontaneamente per scrivere la storia dell’autore di alcuni omicidi che avevano sconvolto la Francia. Il suo movente non era giornalistico - essendo più scrittore che reporter: voleva capire cosa succede nell’animo di una persona che un giorno si trasforma da uomo per bene a omicida spietato. Ritroviamo questo bisogno di comprensione nel tessuto connettivo di V13: cosa spinge dei trentenni, con vite poco regolari ma non certo perdute, ad armarsi di fucili o cinture esplosive e ammazzare decine di coetanei? Quando la religione diventa movente per la distruzione? Non ci sono necessariamente risposte in queste pagine, agghiaccianti, dolorose, frustranti. Ci sono storie di esseri umani lette con uno sguardo umano, pieno di dubbi e per questo onesto. Come Nadia, madre di una delle vittime, che chiama gli accusati “quei ragazzi” ed è capace di affrontare il dolore e la ricerca della verità senza ira né senza desiderio di vendetta. Ha ragione Carrère quando all’inizio del testo scrive “tra il momento in cui entreremo in quell’aula e quello in cui ne usciremo, qualcosa in noi tutti sarà cambiato”: succede anche a chi legge.