
Solamente una cosa fa addirittura ancora più rabbia della noncuranza con la quale un’industria ha devastato senza alcuno scrupolo ambiente e vite umane a meri fini di profitto: l’omertà e la connivenza di chi per sua convenienza gliel’ha permesso. Quella di Taranto è rimasta a lungo una tragedia silenziosa, schiacciata sotto il peso del malaffare, del ricatto occupazionale e delle “relazioni pericolose” intrattenute dall’Ilva con quelli che dovevano essere i suoi controllori (Chi controlla i controllori?, diceva Totò… Parole sante…): sindacati, forze dell’ordine, organi di giustizia, stampa e la politica fino ai suoi più alti vertici nazionali. E a partire dal luglio del duemiladodici, quando sequestri e inchieste hanno finalmente acceso i riflettori sulla vicenda, dall’occultamento della realtà si è passati alla sua mistificazione…
Preferisci morire di cancro o di fame? Di fatto è questa la domanda che è stata posta ai lavoratori dell’Ilva, una società per azioni che prende il nome da quello latino dell’Isola d’Elba, ricca di miniere. L’Ilva si occupa in prevalenza di produzione e trasformazione dell’acciaio. E di inquinamento e tumori. Perché onestamente basta il buon senso per vedere che tra un accumulo di polveri tossiche tale che le lenzuola bianche che stendi fuori ad asciugare rientrano in casa nere e un elenco di morti così lungo da sballare ogni statistica, e che quindi va ignorato, nascosto e taciuto, non può non esserci un collegamento. Ma senza fabbrica non c’è lavoro, e senza lavoro c’è miseria, e il crimine prospera nella miseria… Il libro di Pavone è bello, terribile, documentatissimo, feroce, chiaro, agghiacciante. Fa male. E per questo va letto.