
In seguito all'abuso sessuale perpetrato nei confronti di una sua studentessa di trent'anni più giovane, il professor David Lurie riconosce la sua colpa dinanzi alla Commissione d'inchiesta dell'Università, ma rifiuta di scusarsi. La sua non è la posizione di un immorale opportunista, come vorrebbe far credere l’enfasi inquisitoria, ma la resa ad un agguato della carne da parte di un cinquantaduenne divorziato che credeva di aver risolto “piuttosto bene” il problema del sesso. Dimesso dall'insegnamento David cerca consolazione progettando di comporre un'opera da camera, voci e musica, sull'ultima passione di Lord Byron con la Contessa Guccioli in Italia, dove il poeta si era rifugiato dopo uno scandalo. Successivamente, la propria figlia Lucy, una giovane hippy che vive ritirata in una fattoria, è a sua volta vittima di violenza carnale ad opera di due uomini ed un giovane di colore. Egli vorrebbe denunciare i malfattori per ottenere giustizia, ma la figlia si oppone rivelando un atteggiamento rinunciatario, dietro il quale si nasconde una sconfortante e pessimistica concezione della condizione umana. Una decisione solo apparentemente incomprensibile, ma che condurrà l’ex-insegnante incontro alla dura realtà di un paese strano ed assurdo...
La parabola di questo uomo qualunque che si interroga con mesta doglianza sul perché di quanto gli stia accadendo - che per certi versi richiama alla mente quella del protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, per altri quella tragica del Don Giovanni di Mozart/Da Ponte - non va interpretata come la conseguenza di una vicenda personale, ma piuttosto come la lucida metafora di una lotta che si dispone a contemplare la sua sconfitta. Certo David Lurie guarda il mondo e le proprie vicissitudini con il distacco di chi è passato attraverso le cose pagando di persona un duro prezzo, ma il suo non è un amaro disincanto semplicemente privato. In lui rinveniamo quello stesso senso di sospensione, d’inavvertibile transito che nella nostra illusione di onnipotenza pensiamo fino all’ultimo che non ci riguardi. J.M. Coetzee non si travasa nel suo personaggio, ma ne indaga l’animo in maniera ironicamente sapienziale, per quanta sapienza, frutto della solitudine e del pensiero, possa essere rimasta all’uomo contemporaneo. Non ha una morale da offrire ma riesce solo a presentare i fatti con tutta l’obiettività possibile, nonché beninteso con una magistrale padronanza del proprio mezzo espressivo. Osserva con disagio ed incredulità le tensioni sociali di un paese che risulta diviso da un odio mai sanato tra bianchi e neri, spaccato da un diverso immutabile senso di appartenenza geografico, antropologico. Ma la sua panoramica va oltre le intenzioni socio-culturali, poiché in quanto scrittore post-coloniale e post-moderno, Coetzee rifugge dalla nozione stessa di fondamento e di autenticità della propria e delle altrui culture. La figura di Lucy vibra, al contrario di quella del padre, per l’intensità solare con cui si sforza di aderire alle asprezze della vita e per la cupa disgrazia in cui sprofonda la sua anima. Ma anche per l’imprevedibile saggezza naturale delle sue uscite, dei suoi pensieri. Il filo sotterraneo di Vergogna – Booker Prize 1999 - è contrassegnato dalla presenza ossessiva del sesso, che da mero impulso naturale diviene dapprima questione morale ed infine cinico strumento di vendetta e di lotta per il predominio sociale. Ne esce un libro impegnativo e di sciolta e disinvolta compiutezza, spesso dolorosissimo, perché condotto lungo il piano scorrevole di una verità profonda, nella piana plausibilità del dolore e della propria sofferta pacificazione, nell’obbedienza inevitabile a quelle che sono le ragioni del proprio essere, del proprio essere così come si è. Quella del premio Nobel sudafricano non è certo una letteratura consolatoria ed edificante. Nelle sue pagine non tuona l’impeto degli eroi vincitori né vibra l’astioso risentimento dei perdenti. Egli si propone semplicemente come un testimone desolato e scomodo che, attraverso una prosa scarna ma di asciutta efficacia, indaga il senso del vivere traendone una profonda inquietudine ed un doloroso pessimismo sulla condizione umana.
La parabola di questo uomo qualunque che si interroga con mesta doglianza sul perché di quanto gli stia accadendo - che per certi versi richiama alla mente quella del protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, per altri quella tragica del Don Giovanni di Mozart/Da Ponte - non va interpretata come la conseguenza di una vicenda personale, ma piuttosto come la lucida metafora di una lotta che si dispone a contemplare la sua sconfitta. Certo David Lurie guarda il mondo e le proprie vicissitudini con il distacco di chi è passato attraverso le cose pagando di persona un duro prezzo, ma il suo non è un amaro disincanto semplicemente privato. In lui rinveniamo quello stesso senso di sospensione, d’inavvertibile transito che nella nostra illusione di onnipotenza pensiamo fino all’ultimo che non ci riguardi. J.M. Coetzee non si travasa nel suo personaggio, ma ne indaga l’animo in maniera ironicamente sapienziale, per quanta sapienza, frutto della solitudine e del pensiero, possa essere rimasta all’uomo contemporaneo. Non ha una morale da offrire ma riesce solo a presentare i fatti con tutta l’obiettività possibile, nonché beninteso con una magistrale padronanza del proprio mezzo espressivo. Osserva con disagio ed incredulità le tensioni sociali di un paese che risulta diviso da un odio mai sanato tra bianchi e neri, spaccato da un diverso immutabile senso di appartenenza geografico, antropologico. Ma la sua panoramica va oltre le intenzioni socio-culturali, poiché in quanto scrittore post-coloniale e post-moderno, Coetzee rifugge dalla nozione stessa di fondamento e di autenticità della propria e delle altrui culture. La figura di Lucy vibra, al contrario di quella del padre, per l’intensità solare con cui si sforza di aderire alle asprezze della vita e per la cupa disgrazia in cui sprofonda la sua anima. Ma anche per l’imprevedibile saggezza naturale delle sue uscite, dei suoi pensieri. Il filo sotterraneo di Vergogna – Booker Prize 1999 - è contrassegnato dalla presenza ossessiva del sesso, che da mero impulso naturale diviene dapprima questione morale ed infine cinico strumento di vendetta e di lotta per il predominio sociale. Ne esce un libro impegnativo e di sciolta e disinvolta compiutezza, spesso dolorosissimo, perché condotto lungo il piano scorrevole di una verità profonda, nella piana plausibilità del dolore e della propria sofferta pacificazione, nell’obbedienza inevitabile a quelle che sono le ragioni del proprio essere, del proprio essere così come si è. Quella del premio Nobel sudafricano non è certo una letteratura consolatoria ed edificante. Nelle sue pagine non tuona l’impeto degli eroi vincitori né vibra l’astioso risentimento dei perdenti. Egli si propone semplicemente come un testimone desolato e scomodo che, attraverso una prosa scarna ma di asciutta efficacia, indaga il senso del vivere traendone una profonda inquietudine ed un doloroso pessimismo sulla condizione umana.