
Florilegio di poeti inglesi della Grande Guerra 1914-18, curato e tradotto da Paola Tonussi, War Poets. Nelle trincee della Prima Guerra Mondiale racchiude “spesso urla in forma di poesia, repositori di compassione o di cocente ironia, domande senza risposte, implorazioni di non dimenticare”. Poeti “martiri”, testimoni in senso stretto, giovani o meno giovani; in più di un frangente, sulle prime, entusiasti o almeno estremamente ben disposti a partire per il fronte, come se si trattasse di un dovere cavalleresco, e magari di breve durata; come se combattere per la propria patria potesse ispirare o instillare saggezza. Poi, almeno a partire dai versi di Charles Sorley, interdetti e perplessi di fronte ai massacri, consapevoli della profondissima crisi della società inglese, pian piano desiderosi di un sensibile rinnovamento della poesia inglese; e magari pienamente disillusi, laconici e lapidari come Edward Thomas. A un tratto, nei versi di Siegfried Sassoon, riconosciamo, osserva la curatrice, che “la cristianità non riesce a spiegare o giustificare l’enorme scala del massacro, la disumanizzazione che sconvolge la vita dei singoli, la terribile mancanza di dignità a cui la guerra assoggetta gli individui nella morte”. E si comincia a leggere, ad esempio nei versi di Richard Aldington, il desiderio di demolire l’idea che la guerra abbia qualcosa di vagamente cavalleresco. Nessuno dovrà più credere a un certo genere di retorica o di propaganda, in Inghilterra; in Inghilterra, e magari ovunque altrove, in Europa. Wilfred Owen vuole che i lettori, in patria, sappiano cosa significa morire per avvelenamento da gas; non c’è niente di onorevole e niente di umano. La sopravvivenza diventa una casualità: non dipende dal talento, dal valore, dal coraggio. “L’unica realtà” – glossa la Tonussi – “è il dolore di chi combatte, le ferite della terra, il senso di abbandono di Dio”. Ed ecco che, poco a poco, col passare degli anni al fronte, la brutalità della guerra disintegra la poesia; più frequenti diventano i biancheggiamenti e i versi liberi. Si perdono i canoni e si perde la misura. Ascoltiamo il latrato della sofferenza. E le sempre più nitide critiche a tutte quelle autorità che hanno avallato o determinato la guerra: a chiunque permette che il destino dei soldati sia quello d’essere carne da macello. Gi artisti antologizzati, ciascuno con dettagliata notizia biobibliografica, sono Richard Aldington [1892-1962], Laurence Binyon [1869-1943], Rupert Brooke [1887-1915], l’anglotedesco Robert Graves [1895-1985], Julian Grenfell [1888-1915], Ivor Gurney [1890-1937], Thomas Hardy [1840-1928], l’irishman Francis Ledwidge [1887-1917], Harold Monro [1879-1932], Wilfred Owen [1893-1918], il figlio del popolo Isaac Rosenberg [1890-1918], Siegfried Sassoon [1886-1967], Charles Sorley [1871-1915] ed Edward Thomas [1878-1917]...
“Impotent, / How Impotent is all this clamor / This destruction and contest”, canta Richard Arlington, nella sua In the Trenches; “Inutile / Quanto inutile tutto questo clamore / Questa distruzione, questa contesa”. E più avanti, altrove, ammette di essersi sbagliato, sbagliato del tutto: “The dead men are not always carrion”, “i morti non sempre sono cadaveri”. Robert von Ranke Graves potrebbe glossare: “In dead men, breath”, “negli uomini morti, il respiro”. E forse ci siamo già detti ogni cosa, con quattro versi. Da che parti siamo, allora, con questa amara e malinconica antolologia di poeti curata dalla Tonussi? Io direi che in principio era sua maestà, l’augusto professor Andrea Cortellessa, padre dell’irrinunciabile e sino a quel punto impensabile Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima Guerra Mondiale [prima edizione 1998], reduce da recente riedizione Bompiani, 2018: si tratta di una scelta fondata su sessantasette artisti italiani, dai più prevedibili Saba, Ungaretti, Marinetti, D’Annunzio ai Gadda, ai Rebora, agli Sbarbaro e ai Campana. Portata, spirito e intelligenza, in genere, dell’ambiziosa e illuminante antologia di Cortellessa vennero replicati, in salsa massimalista e internazionalista, dal vecchio professor Piero Del Giudice: il catalogo della sua mostra L’Europa in Guerra. Tracce del secolo breve [2015] era, oltre a una apprezzabile e non raramente insolita raccolta di immagini d’epoca (foto, quadri, lettere etc), una notevole antologia di artisti reduci dal fronte (o rimasti, là al fronte), suddivisa per impero o per nazione d’appartenenza. Il lavoro della Tonussi rientra in questa temperie; rimane uncinato all’Inghilterra (ma sì, include anche un irlandese) e tuttavia restituisce esattamente la stessa morale della favola. Una morale della favola, quella della insensatezza e della maledizione della guerra, che la nostra Europa non seppe interiorizzare allora, precipitando di lì a poco nella Seconda Guerra Mondiale... e forse ha iniziato a dimenticare negli ultimi trenta anni, considerando quanto accaduto prima nella fu Jugoslavia, poi in Serbia (questione Kosovo, etc) e in questi ultimissimi anni prima in Crimea e poi nel resto dell’Ucraina, oggetto delle vigliacche aggressioni imperialiste russe. Ha senso, a partire da questa antologia, ripartire a caccia dei versi o degli scritti, in genere, degli artisti prescelti? Naturalmente sì, e non senza soddisfazione, e magari preferendo nomi meno noti degli acclamati Graves e Hardy. In appendice, ringraziamenti e una apprezzabile bibliografia, così suddivisa: per ogni autore, opere; autobiografie, biografie, lettere; antologie, saggi; sitografia (internet).