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Weyward

Weyward

2019 – Kate. Quando sente la chiave girare nella serratura, le dita le tremano. Finisce di sistemarsi il trucco, mentre le vene le pulsano nel collo, sotto la spessa catena d’argento che Simon le ha regalato per il loro ultimo anniversario e che lei non indossa di giorno, quando lui è al lavoro. Kate sente la porta richiudersi e poco dopo avverte il gorgoglio di un liquido versato in un bicchiere: vino. Simon le si avvicina e lei cerca con tutte le sue forze di non fargli capire che, finalmente, c’è qualcosa di diverso. Lui le chiede cosa abbia fatto durante la giornata; Kate lo rassicura rispondendo che non si è mossa di casa, ma Simon non le crede, le dà della bugiarda e la minaccia, prima di uscire di nuovo sbattendo con violenza la porta dietro sé. Ecco, il momento è arrivato. Non può più attendere. Kate recupera il secondo cellulare che aveva fatto sparire, prende una sacca dall’armadio e la riempie di vestiti; in ascensore sente l’adrenalina a mille. Nel garage recupera la Honda che aveva acquistato prima di conoscere Simon e che è intestata a lei, gira la chiave nel quadro, si immette in strada e inserisce l’indirizzo di casa della prozia su Google Maps. In sette ore potrà raggiungere il Weyward cottage e la libertà. 1942 – Violet. Violet odia Graham, suo fratello. Lo detesta perché a lui è concesso studiare cose interessanti come il latino, Pitagora e le scienze, mentre lei è costretta a starsene tutto il giorno tra aghi e stoffe. Graham studia in collegio e rientra solo ogni tanto. E ogni volta è sempre più estraneo. Lei, invece, non può muoversi da casa. Inoltre, se chiede a qualcuno un ricordo legato alla madre, morta da tempo, nessuno riesce ad aiutarla: la memoria della donna che l’ha messa al mondo è diventata una flebile traccia di cui né suo padre, né Tata Metcalfe hanno intenzione di parlare. L’unica cosa che ha origliato – si trovava nella cucina di casa a procacciarsi pane e marmellata dalla dispensa e ha intercettato una conversazione tra Tata Metcalfe e la signorina Kirkby, intente ad aggiornare la neoassunta signorina Poole – riguardava il fatto che lei è stravagante esattamente come la madre, la cui morte è stata una “una brutta storia”. 1619 – Altha. È imprigionata da dieci giorni, sola. Nessuno le ha portato da mangiare, solo birra. Poi il catenaccio viene rimosso e la pesante porta viene aperta. La luce le colpisce gli occhi. Gli uomini dell’accusa sono arrivati. La porteranno a processo. Altha non nutre alcuna speranza. Sa già che la condanneranno a morte...

Tre epoche diverse, tre vite agli antipodi che si intrecciano come in una ragnatela e raccontano la forza delle donne. Altha, Violet e Kate condividono un segreto di famiglia e il desiderio di affrancarsi da un’esistenza che le ha incatenate e rese dipendenti. Altha è accusata di aver ucciso un contadino; la gente la reputa una strega, perché l’abitudine della donna di entrare in relazione con piante e animali, anziché un dono è considerata una pratica di stregoneria. Violet è una sedicenne che, negli anni Quaranta del secolo scorso, preferisce arrampicarsi sugli alberi e studiare gli insetti piuttosto che affannarsi alla ricerca di un marito che le garantisca una posizione sociale di rispetto. Poi c’è Kate, donna dei nostri giorni, che si allontana dalla città e dalle violenze del marito per rifugiarsi in un cottage immerso nella natura e nella quiete, un luogo in cui ritrovarsi e cercare le proprie radici. Sono tre figure interessanti quelle che Emilia Hart – trentenne australiana trasferita a Londra, al suo romanzo d’esordio – propone ai lettori: tre donne forti e determinate, ciascuna controcorrente rispetto alla propria epoca e ciascuna decisa a infrangere le regole imposte dalla società e dai costumi, se necessario, per maturare piena coscienza del proprio potere. Un incrocio di vicende, bizzarre solo all’apparenza, che si svelano e mostrano i tratti che le accomunano solo alla fine del romanzo. Violenze, tradimenti e ingiustizie sono il pane quotidiano di Altha, Violet e Kate, donne derubate della propria identità che riescono, tuttavia, a riscattarsi e a diventare esempio di resilienza e coraggio. Con un linguaggio semplice e diretto e uno stile che richiama la favola – anche se in questo caso si tratta di una favola strettamente intrecciata alla realtà – Hart mostra la forza di chi non si piega, il coraggio di chi impara a credere in se stesso e nella solidarietà, in questo caso tutta femminile. Una lettura piacevole, leggera ma mai banale, in cui il lieto fine, che si respira fin dalle prime righe, non è una forzatura e non priva il lettore del desiderio di conoscere come un destino già segnato possa essere modificato e piegato dalla volontà e dalla fame di vita che anima le tre protagoniste della storia.

LEGGI L’INTERVISTA A EMILIA HART