
Dintorni di Vittorio Veneto. Teresa segue il sentiero che si inerpica lungo la collina. Annusa gli odori dell’autunno, gli stessi di quei boschi che è stata costretta ad abbandonare. Il terreno è pieno di foglie gialle di robinia, che infestano e soffocano betulle e faggi. Sul terreno ci sono i segni del passaggio di una femmina di cinghiale e dei suoi piccoli. Suo padre le ha insegnato ad abbatterli senza che loro soffrano, mentre la madre le ha trasmesso tutti i segreti di una perfetta marinatura, che mai può durare meno di un giorno intero. Per un istante i ricordi felici le allagano il cuore, ma poi diventano così dolorosi da mozzarle il respiro. Ricomincia a camminare e si rende conto che il silenzio innaturale che la circonda può essere stato creato unicamente dalla presenza dell’uomo. Avanza cauta, finché nota figure vestite di bianco da capo a piedi. Sono della scientifica, pensa, mentre con lo sguardo scruta lì intorno, alla ricerca di altri sbirri. Avanza curva, nascondendosi dietro i fusti più alti per evitare di farsi notare. Riesce a vedere una ragazza nuda, stesa sull’erba ingiallita al centro di tre alberi ad alto fusto. Il lampo di una macchina fotografica illumina il volto del cadavere e Teresa lo riconosce. Si tratta di Stella. Nel giro di due mesi, Stella è la seconda che finisce ammazzata. La prima è stata Titti, stuprata e poi strangolata a una trentina di chilometri da quel punto. Teresa sa che deve tornare in fretta alla cascina e avvertire le altre. Quel posto non è più sicuro, qualcuno lo scoprirà in fretta e finirà per stravolgere quella specie di quiete che le ragazze sono riuscite a costruire nel loro nascondiglio. Quando il furgone della polizia mortuaria parcheggia e il cadavere di Stella viene infilato in un sacco nero, Teresa prende la strada del ritorno, voltandosi di tanto in tanto per assicurarsi che nessuno la segua. La giovane ignora di essere stata notata da almeno dieci minuti da una poliziotta, Giustina Rebellin, che, nascosta da un albero, l’ha spiata a lungo, affascinata dal suo bel volto e dalla sua capacità di muoversi nel bosco senza fare rumore...
Sono sei, sono giovani e ciascuna di esse è fuggita dal proprio inferno. Sono in fuga da un passato pesante come piombo e da un presente complesso; la strada verso il futuro è rischiosa e male illuminata: ci sono pregiudizi da combattere, luoghi comuni da sfatare e una poliziotta che, come una scheggia impazzita, è sulle loro tracce, disposta a tutto pur di liberarsi della loro pericolosissima verità. Il romanzo scritto a dieci mani da cinque dei più illustri autori di thriller del panorama italiano è omogeneo come se la mano che ha impresso le parole sulla carta (o meglio, il cursore che le ha composte sullo schermo di un pc) fosse solo una. Un esperimento sicuramente riuscito, quello che ha portato i cinque autori a unire le idee per dar vita a un intreccio magistralmente articolato e carico di suspense; un plot in cui, mentre si assiste alla fuga di sei giovani con cui la vita non è stata particolarmente generosa, si raccontano l’amicizia, il dolore, l’amore, la solidarietà. Un romanzo corale che pone l’accento sull’ingiustizia che si annida anche nei luoghi deputati a riconoscerla e ad annientarla; il racconto di una solidarietà che prende corpo dalla solitudine e di una somma di inquietudini che trovano quiete solo in una comunione d’intenti che, pur tra fughe, orrore e fango, è preziosa come un abbraccio o una stretta di mano. Immagini che scorrono rapide su pagine che si leggono d’un fiato, tra sospetti, trappole e corse a perdifiato verso un futuro incerto ma carico di speranza. Fuggire diventa l’imperativo di chi vuole affrancarsi dal bigottismo e dalla schiavitù, dall’omertà e dalla mancanza di rispetto. Storie di abusi e violenze che accartocciano l’innocenza della giovinezza e ne fanno scempio; pagine intense in cui anche il silenzio vibra e racconta ciò le parole, da sole, non riescono a esprimere.