
Bel Air, California. Appoggiata al lavandino, tailleur bianco, capelli biondi ossigenati “alla Liza Minnelli” e un bicchiere di vino in mano, Dot osserva la nipote Amanda vomitare sul copriwater rivestito in oro di casa Roth. La ragazza si è sentita male nel bel mezzo dei festeggiamenti per il compleanno di nonna Patricia, la madre di Dot. La zia, dopo averla rassicurata (“Questa famiglia l’ho già rotta io”), esce a comprarle un test di gravidanza – inseguita dagli insulti della madre di Amanda, sua sorella, e non prima di aver chiesto alla tavolata di lasciarle un po’ di dolce. Mentre è intenta a infilare dieci dollari nel distributore automatico la approccia sogghignando un ragazzo. Dot lo riconosce, è il figlio di Susan Bloomberg. Certo, può far ridere “una lesbica che compra un test di gravidanza”. Ma quale migliore occasione per raccontare di quella festa a casa Bloomberg, l’ultimo anno di liceo. Deve sapere, David – così si chiama il ragazzo – che Susan non si trovava da nessuna parte e che anche le sorelle di Dot avevano faticato a trovare lei quella sera... Altar, Messico. Il suo turno anche oggi è finito, Marvin lo capisce dal colore del cielo che è tutto arancione, il sole sprofondato per metà dietro le rocce. Poggia la mano sulla pala piantata a terra, il cappello da cowboy calato sulla testa. Sente una voce chiamarlo dalla strada. È Rico, che gli porge una birra e lo avverte che Luiz, il capo del cantiere, lo vuole vedere. Marvin raggiunge Luiz nel suo ufficio. L’uomo è alla sua scrivania circondato da planimetrie, sta fumando una sigaretta, gli fa cenno di sedersi. Gli consegna una lettera senza destinatario. È arrivata a Nogales, spiega Luiz, il posto dove Marvin lavorava tempo addietro. Marvin legge in silenzio, corre con gli occhi alla firma. “Oliver, quel figlio di puttana”. Marv chiude gli occhi, le mani nei capelli. Deve andarsene, deve passare di nuovo il confine...
Il primo nucleo dell’esordio letterario di Riccardo D’Aquila, autore di Chieti classe 1992, compare sul numero 34 della rivista letteraria “‘tina”. Il racconto in questione, Zia Dot, oggi costituisce il primo capitolo del romanzo pubblicato da Fandango. Una gradevole storia on the road in salsa USA che vede protagonista una coppia di amici di vecchia data, entrambi cresciuti nel signorile quartiere di Bel Air. Lui è Marvin, trasferitosi in California dopo il suicidio del padre, costretto a rifugiare in Messico a seguito di una rapina finita male. Lei è Dorothy “Dot” Roth, rampolla di ricca famiglia, quarantenne lesbica e anticonformista. Dopo quindici anni dalla sua fuga, Marvin tornerà in California spinto dal contenuto di una misteriosa lettera e trascinerà Dot in un’avventura a bordo di un pick-up rosso, destinazione Phoenix. Ad accompagnarli un grande segreto – da rivelare a Dot solo una volta arrivati a destinazione – e una complicità sincera, di quelle che il tempo e la distanza non sono in grado di scalfire. A bilanciare talune, forse un po’ acerbe, scelte strutturali – qualche scena poco utile all’economia della storia, qualche monologo che vira eccessivamente al didascalico – un’ottima caratterizzazione dei personaggi e la scelta di approfondire il loro rapporto d’amicizia attraverso brevi, intensi capitoli flashback. Marv e Dot sono due ribelli, due “arrabbiati”. Arrabbiati per le sfide che la vita ha riservato loro, e perciò simili, specchio e sostegno delle reciproche debolezze. Spicca di certo la figura di Dot: caustica, sagace, spesso inopportuna, una maschera di elegante e divertito cinismo per mostrarsi sempre contro tutto e tutti, ma dal gran cuore, teso nella fragilità di un desiderio tutto umano, quello di sentirsi accettati, di trovare la propria libertà – che sia dalle aspettative altrui o da quelle che ci si è cuciti addosso – e la felicità. Ma c’è sempre un’alternativa. A volte può arrivare da un passato lontano e scombinare i piani. Non è mai finita davvero, per dirla con Marv, “il troppo tardi non esiste”. E il segreto è non fermarsi, “restare al volante” e vedere dove la strada ci porterà. Suerte, zia Dot.