
L’editore Sagoma non poteva mancare all’appuntamento dei cento anni dalla nascita di Nino Manfredi, dedicandogli un volume della collana relativa alle biografie dei grandi comici. A celebrare Manfredi l’autore del libro, Andrea Ciaffaroni, uno dei massimi esperti italiani di comicità internazionale oltre che italiana e anche uno dei collezionisti maggiori di materiale dedicato all’argomento. A scrivere pre e postfazione del volume, Alberto Anile e Alberto Crespi, presenti alla conferenza stampa di presentazione insieme ad un testimone-testimonial d’eccezione, ovvero lo splendido attore Leo Gullotta che ha conosciuto e lavorato con Nino Manfredi. A governare la conversazione con i giornalisti, come sempre c’è Gianni Fantoni.
A cosa si deve, centenario a parte, il volume Alla ricerca di Nino Manfredi?
Alla passione che ho per i comici che mi avrebbe portato comunque, prima o poi, a Nino Manfredi - non solo perché nel 2021 si celebra il centenario della sua nascita, ma perché è uno dei miei attori preferiti in assoluto. Io con Manfredi ho avuto un rapporto da spettatore fin da ragazzino, era quello che mi ricordava di più gli attori inglesi, aveva un tipo di recitazione, sempre più sibillina, sempre molto piena di sfumature, non aveva l’esuberanza alla Alberto Sordi, non era come Peter Sellers, era più un Alec Guinness della Ciociaria. Quindi per me Manfredi è stato molto importante, soprattutto per i film che ha fatto che sono stati fondamentali per il cinema italiano, perché credo sia stato uno di quelli più vicini alle radici popolari. Lui era nato in Ciociaria, a Castro dei Volsci, e quindi è quello che aveva il background più interessante da raccontare, background inteso sin dalle sue origini contadine che provengono dal nonno che veniva dall’America, quindi le sue radici da figlio di immigranti, alla stessa vita che ha fatto da ragazzo. Ho scoperto, iniziando così il lavoro di ricerca su Manfredi, parlando con la moglie Erminia che mi ha regalato del tempo preziosissimo, che gran parte del lavoro di Manfredi attore e autore proveniva dalle sue radici e dalla sua vita personale. Nelle interviste Manfredi raccontava proprio questo, il fatto che aveva sofferto tantissimo nella sua vita, soprattutto da ragazzo. Quindi l’idea che mi sono fatto su Manfredi dal lato umano è che si è approcciato sempre con grandissimo professionismo al suo lavoro, è quello che non ha mai voluto, per questo suo grande rispetto verso il pubblico, dare una delusione: ha sempre dato il massimo, ha fatto sempre in modo che la sua vita non fosse mai sprecata, perché, come diceva Gigi Magni, “Ogni volta che lui affrontava un personaggio era una sfida”. Quindi tutte le scelte che ha fatto nella sua carriera sono così interessanti, così studiate, fatte in un modo che lui come attore si presentasse sì brillante, ma con tantissime sfumature nella sua recitazione e nei personaggi che sceglieva. Perché, ad esempio, pure quando ha fatto il famosissimo barista di Ceccano, nel programma che gli ha dato il successo nazionale, a Canzonissima, lui è arrivato al picco della popolarità, ma non ha mai voluto sfruttare quel tipo di personaggio, a parte perché odiava le ripetizioni, ma pure perché non voleva sfruttare quel personaggio, quasi dicendo al pubblico: “Sì, va bene, ho fatto questo personaggio comico, ma come attore sono pronto a interpretare personaggi migliori”. Tant’è che dopo il successo di Canzonissima, lui ha interpretato una serie di film per sei, sette anni tutt’altro che commerciali. Questo mi ha portato ad avere un grandissimo rispetto nei suoi confronti e nei confronti della sua grande professionalità. Ho fatto un lavoro di ricerca molto approfondito, perché, dal punto di vista bibliografico, non c’era tantissimo, anzi, veramente molto poco. Sono partito dal primo grande testo che ha fatto su Manfredi Aldo Bernardini per Gremese Editore, che mi ha dato l’autorizzazione a utilizzare un’intervista fantastica che lui rilasciò alla fine degli Anni Settanta e da qui sono partito con il racconto della sua vita. Ho visitato Castro dei Volsci, ho visto la casa dove è nato, la cantina dove da bambino provava le recite coi suoi compagni di gioco e poi tutto il percorso fatto da Castro a Roma, mentre sfidava il padre che lo voleva avvocato, mentre lui voleva fare l’attore. Ma anche lì c’è arrivato attraverso un percorso abbastanza sofferto perché per lui il primo palcoscenico è stato quello dell’Ospedale Forlanini, insieme ai ricoverati, perché era malato di tubercolosi. Ogni scelta che ha fatto è stata sempre molto importante, quindi raccontarlo è stato davvero molto bello, ma anche divertente, perché poi, parlando con Erminia che è una persona estremamente positiva, abbiamo sempre riso tantissimo, anche quando magari mi raccontava cose non proprio tragiche, però magari difficili, era il lato umano di una persona che passava sempre il tempo con il suo lavoro, sempre sui copioni, sempre su una qualsiasi cosa che magari doveva presentare in televisione. Ad esempio se doveva raccontare una barzelletta in televisione, la provava con la famiglia. Sempre una fonte di grandi risate, perché ogni cosa che ha fatto, l’ha fatta con tanta ironia. Già il fatto di andare a Sanremo e presentare Tanto pe’ cantà, la canzone di Ettore Petrolini di quarant’anni prima, era comunque una cosa inusuale e ha vinto moralmente Sanremo. Per me Nino Manfredi è stato un vero e proprio uovo di Colombo: per ogni cosa che tiravo fuori, c’era veramente tantissimo. Una delle cose più belle che lega personalmente Manfredi al sottoscritto, a parte che io l’ho visto solo una volta in vita mia, mentre girava delle scene di Linda e il brigadiere dove abito io, a Ostia Lido, è stato il fatto che io mi chiamo Andrea per il film Lo chiameremo Andrea di VIttorio De Sica. Quando uscì, sarebbe dovuto nascere un maschio e, invece, nacque mia sorella, ma poi io sono nato il giorno in cui c’è stata la prima tv di questo film, quindi in un certo senso mi sono sentito sempre legato. Per poter raccontare questa storia con Carlo Amatetti abbiamo fatto un lavoro di editing piuttosto importante, perché già il libro è abbastanza lungo, sono 440 pagine. Ho raccolto alcune interviste per i punti in cui avevo più lacune. Per esempio ho intervistato i fratelli De Angelis (altrimenti conosciuti come Oliver Onions), mitico duo di musicisti che fecero l’arrangiamento di Tanto pe’ cantà e curarono la colonna sonora di Per grazia ricevuta e poi Pamela Villoresi che è stata la prima partner nel ritorno di Nino a teatro negli Anni Ottanta, quando il cinema lo aveva un po’ messo da parte. Con il Centro Sperimentale di Cinematografia mi è stata data l’occasione di accedere all’archivio fotografico e hanno acconsentito che dieci splendide fotografie finissero nel libro. Tra l’altro questo libro è iniziato prima della pandemia di Covid-19 ed è durato tutto il tempo, fino a un mese fa, ma quando mi è stato possibile sono andato al Centro Sperimentale, alla “Luigi Chiarini”, la mitica biblioteca di Cinema di Roma, per fare le ricerche. Quindi anche lì mi sono stati molto d’aiuto. Il lavoro è stato davvero imponente...
Ma un lavoro del genere, con così tanta ricerca, non puoi averlo fatto tutto in un anno, cioè in corrispondenza con la pandemia!
No, frequento la Biblioteca del Cinema da quando ero ragazzino e sono un collezionista ossessivo-compulsivo di ritagli stampa e materiale vario. In realtà la scrittura è durata un anno, ma c’è tutto un background tosto che fa parte della mia vita dedicata a questo tipo di passioni. In un certo senso, sono stato fortunato per via della pandemia, perché stando a casa, con le biblioteche chiuse, ho dovuto acquistare decine di libri che ho potuto utilizzare, per esempio, per il periodo teatrale. E questo è stato molto interessante, perché poi da lì ho ricevuto molti spunti interessanti per raccontare una parte fondamentale come quella del teatro, perché a un certo punto mi sono reso conto, proprio leggendo questi libri sull’Accademia, sul Teatro stabile di Roma e su quello di Milano (perché Manfredi è stato anche diretto da Giorgio Strehler in opere shakespeariane), che Manfredi è stato un grande testimone dell’evoluzione teatrale in Italia. L’Accademia di Arte Drammatica è nata nella metà degli Anni Trenta perché non c’era nessuna scuola, nessuno che spiegasse com’era una regia, perché non esisteva come ruolo quello della regia teatrale. Lui ha fatto l’Accademia, ha lavorato con Eduardo De Filippo, poi quando lui ha sentito, perché anche la motivazione è veramente interessante, che una sera che recitò male Shakespeare perché aveva problemi personali (l’aveva lasciato la fidanzata) gli applausi arrivarono lo stesso, si è reso conto che “Non ero io bravo, ma era il testo di Shakespeare”, quindi sentì l’esigenza di fare qualcosa di personale e si è buttato a fare la rivista, gettando praticamente alle spalle tutta la sua formazione teatrale. E la rivista l’ha fatta, anche lì, con grande professionalità. C’è una foto meravigliosa che abbiamo recuperato nella quale sta facendo le prove con Furio Scarpelli e Alberto Lionello, una foto da mettere i brividi, perché Scarpelli con Ages è stato uno dei padri della commedia italiana e Alberto Lionello è un altro attore completamente dimenticato. Quindi questo libro io l’ho fatto anche per raccontare una parte di spettacolo italiano che è completamente dimenticato, perché Nino Manfredi e non solo lui sono stati completamente dimenticati. Di certo, in occasione del centenario, molti film ritorneranno in tv, quindi questo mio libro rappresenta una sorta di aperitivo. Di solito queste cose si fanno in occasione degli anniversari e il centenario c’è solo una volta!
E sei riuscito a rivedere tutti i suoi film?
Sì e qualcuno mi ha sorpreso. Per esempio I ragazzi dei Parioli di Sergio Corbucci (1959), una delle primissime regie di Corbucci, Manfredi era al primo film con lui (il secondo sarà La mazzetta nel 1978). Sergio Corbucci era un regista assolutamente commerciale e quindi si è trovato questo attore alle prime armi, però molto bravo in una parte brillante e molto carina. Un film che racconta di fatto la storia di tre ragazzi che vogliono rimorchiare tre ragazzine di zona provinciale e quindi le portano nella Roma “bene”. Questo giovanotto molto simpatico e molto timido, che è appunto Nino Manfredi, rimane addirittura sotto casa ad aspettarle, mentre queste tre sono abbindolate in un provino per una fantomatica produzione cinematografica, ma in realtà questi ragazzi hanno l’unico obiettivo di portarsele a letto. Aveva moltissimo in comune con quella purtroppo tragica e famosa vicenda di cronaca nera del Circeo degli Anni Settanta, dove appunto per la stessa motivazione venne uccisa una ragazza e un’altra torturata ma per fortuna salvata. Così vicino all’attualità che mi ha lasciato di stucco, anche se il film è stato girato molti anni prima del delitto del Circeo e c’è da aggiungere che Manfredi era l’unico che recitava bene, mentre tutti gli altri hanno recitato malissimo. Ecco questo è un film che mi ha lasciato sorpreso. Poi un film tedesco con Vittorio De Sica che fa un ammiraglio di una nave scassatissima e lui fa una piccola parte, quella di un aviatore che si vanta di avventure mai avvenute e il film si chiama Pezzo, capopezzo e capitano ed è curioso perché Manfredi appariva cinque minuti, però nei manifesti il suo nome era scritto in grande, giusto per sfruttarne la popolarità. Ho rivisto tutto ed è stata una gioia e la conferma che lui è stato un attore pazzesco. Ripeto e questa parola l’ho usata spesso nel libro, era l’attore più “misurato”. Ci sono tanti film che purtroppo, per motivi di diritti, a causa del volere di buonanima di Dino De Laurentis, che si è avvalso di tante coproduzioni straniere fallite, sono stati bloccati, come Alta infedeltà che ha quattro episodi, il primo dei quali si intitola Scandaloso, nel quale Nino va in vacanza con la moglie, interpretata da Fulvia Franco (la stessa che recita al suo fianco anche nell’episodio L’avventura di un soldato), durante una vacanza al mare e conoscono un ragazzo inglese, bello e aitante, che Manfredi pensa stesse facendo la corte alla moglie, quando in realtà è interessato a Nino. E quando questo giovane si confessa, una sera, al bar, lui non reagisce in maniera esagerata, sopra le righe, come magari avrebbe potuto fare qualche altro attore in questa interpretazione, ma rimane immobile che guarda la sua mano coperta da quella di questo ragazzo che si sta confessando con così grande sofferenza. Un episodio molto azzardato per il periodo, era il 1964. Io ho letto cose incredibili su questo episodio, dove ci si arrampicava sugli specchi per non usare la parola omosessuale, preferendo “deviato”, “capovolto”, anche questo, comunque, un segno dei tempi. Il modo con cui lui agisce viene definito da Mario Soldati “una reazione dettata col contagocce”. Come cambia la sua espressione è una freccia al suo arco, perché lui usava il corpo a volte più della parola. Se vi riguardate i film di Nino Manfredi, osservate gli sguardi, il modo con cui muove il corpo, quando corre, quando cammina: era straordinario e c’è molto non solo di Keaton, ma c’è molto anche di Charlie Chaplin. Un aneddoto: una volta che andai a casa della signora Erminia, in questa casa meravigliosa sull’Aventino, vidi una cesta piena di VHS di Charlie Chaplin. E io le dissi: “Queste se le guarda lei?". “No - mi rispose - queste se le guardava Nino, le consumava ogni giorno”. Perché lui si chiedeva sempre, quando girava un film, quando girava una scena o scriveva un copione, come l’avrebbe fatto Chaplin.
Non capita spesso di leggere biografie così piene di aneddoti, spunti, racconti e particolari. Però qualcun altro non ha parlato proprio benissimo di Manfredi...
Dal punto di vista privato, ho evitato tante cose, innanzitutto perché non l’ho conosciuto. Sì, sapevo che era una personalità molto forte anche a casa, una persona che si comportava in maniera patriarcale, come poi era normale all’epoca. È stata una persona che ha dato parecchio alla famiglia, ma dedicava molto tempo al lavoro. Quindi si è detto di un padre assente, di un marito non proprio perfetto, però non ne ho parlato, perché mi dava fastidio che questo potesse sviare sul contributo creativo di cui mi basta e avanza avere fatto un libro. Sono rimasto comunque basito di ciò che ancora si continua a dire, ma credo che l’espressione di Erminia dica tutto: “Quando sposi un genio, sposi tutto il pacchetto!”.
In definitiva, perché Manfredi tra i cosiddetti “colonnelli della commedia all’italiana” è quello meno celebrato? È cambiato il pubblico o ha a che fare con certi aspetti di Manfredi che nel libro sono spiegati?
Da quello che ho potuto capire, il paragone con gli altri colonnelli della commedia italiana è azzeccato, proprio per vedere come erano come personaggi, non certo per una classifica tra loro. Sicuramente è cambiato il pubblico, anche la tv generalista, il modo in cui noi approfondiamo culturalmente alcune cose. Io sono stato fortunato, ho meno di quaranta anni ed ero sempre incollato alla tv nella quale facevano film a rotta di collo, soprattutto commedia italiana in bianco e nero, quindi ecco perché poi nella mia generazione in pochi ricordano Manfredi, Tognazzi, Gassman. Sordi era sicuramente il più comico dei quattro e quindi arrivava di più nella memoria collettiva. Attualmente c’è, credo, una situazione di memoria storica abbastanza invisibile, quindi noi, io come autore e la Sagoma Editore, cerchiamo di alimentare un ripasso e uno studio di questo tipo di cinema, non solo comico, ma proprio di quella che è stata una stagione irripetibile del nostro cinema. Manfredi è sempre stato quello che ha avuto più difficoltà ad arrivare al successo, anche perché non ha voluto sfruttare la macchietta del barista di Ceccano. Uno dei primi film che ha fatto dopo Canzonissima è stato A cavallo della tigre, che è un film meraviglioso di Luigi Comencini, ma non è certo un film natalizio, commerciale, perché raccontava la fuga tragica, grottesca e in un certo senso anche ironica (ma non troppo) di quattro carcerati. L’hanno anche venduto come film di Natale e forse questo è il motivo per cui non ha avuto successo. Quindi le scelte che ha fatto sono sempre state il rispetto per il pubblico, anche per mostrare quanto talento avesse in un certo senso, ma erano meno commerciali. Credo che quando lui ha avuto possibilità di dire la propria sulla sceneggiatura, ad esempio tutti quanti gli intervistati e la moglie Erminia mi hanno confermato che lui era un po’ l’ombra del regista, degli sceneggiatori, lui voleva rivedere tutto, ma anche dal punto di vista del montaggio, dell’obiettivo con la cinepresa. Ecco perché a lungo andare si è creata una “mezza leggenda” (anche se non è corretto usare la parola leggenda, perché lo faceva anche Alberto Sordi, anche se si racconta poco, ma è noto come Rodolfo Sonego diventasse matto per stargli dietro) che lui fosse il “rompiscatole” del cinema italiano. Erano artisti straordinari, ma avevano l’insicurezza, la pignoleria, la voglia di fare sempre le cose al meglio. Manfredi era il puntiglioso, era quello che voleva essere non dico il primo della classe, però quello che vuole fare le cose fatte bene. E questo lo ha reso un po’, tra gli addetti ai lavori, una figura antipatica. La gente gli ha però comunque voluto bene perché arrivava direttamente alle persone. In parte però non mi spiego perché ora ha meno spazio rispetto ai film di Alberto Sordi, perché credo che Per grazia ricevuta sia un film meraviglioso! Ma, forse, il pubblico preferisce ricordare le cose più leggere. Non ho ben chiara in realtà questa cosa è il problema di una memoria che è completamente dimenticata e Manfredi fa parte solamente del gruppo. La stessa cosa anche Tognazzi, forse perché ha girato film con personaggi più rischiosi, non lo so. Credo che sia perché noi non siamo più adatti ad apprezzare quelli che ci hanno fatto ridere. Come diceva proprio Manfredi, seguendo la lezione di Orazio Costa, suo grande maestro dell’Accademia, si deve far pensare ai problemi della gente con un sorriso, insomma quasi un “castigat ridendo mores”.