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Intervista a Ildefonso Falcones

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Ildefonso Falcones è impeccabile: giacca, cravatta, orologio costoso al polso, dopobarba, gel. Nella vita “vera” fa l’avvocato civilista a Barcellona, e nemmeno il boom del suo romanzo d’esordio, una roba che ha riscritto nove volte prima che un editore - nello specifico la piccola casa editrice Grijalbo - si degnasse di non cestinarlo (ma che ha avuto milioni di lettori in tutto il mondo Italia compresa) lo ha convinto a dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Non ha nessuna voglia di salire sul vanesio carrozzone di “quelli che vivono della propria fantasia”, come ama definirli Francesco Guccini: è troppo attaccato alla realtà. E alla storia della sua Spagna, naturalmente.




Il tuo romanzo La cattedrale del mare fotografa un momento storico fondamentale, anzi direi che è un’allegoria del passaggio dall'oscurità del medioevo, del feudalesimo, della schiavitù all’avvento della borghesia...
È stata una scelta precisa ambientare il mio romanzo nel XIV secolo a Barcellona, nella Catalogna al suo apogeo commerciale, culturale ed economico. Un quadro in forte contrasto con le atmosfere lugubri del Medioevo, che viene peraltro sempre presentato così violento, così oscuro. Io volevo riscattare questa visione, in un certo senso.

Oltre che un romanzo storico La cattedrale del mare è un atto d’amore per la tua città, Barcellona...
Sì, in un certo senso. E anche un omaggio alla sua storia illustre e complicata. Ma il vero atto d’amore è stato quello della gente che ha costruito la chiesa di Santa Maria del Mar, voglio dire che i veri protagonisti del mio libro sono loro, la gente che ha fatto grande Barcellona.

Cosa ha di speciale la chiesa di Santa Maria del Mar? E cosa ha significato per la gente del barrio de la Ribera la sua costruzione?
Oggi è difficile rintracciare i segni e il ricordo di ciò che quell’impresa ha rappresentato, ma nel secolo XIV quella chiesa simboleggiò il riscatto,la consacrazione del barrio marinaro di Barcellona, abitato da poveri pescatori, da artigiani e da commercianti che innalzarono la loro cattedrale in una specie di folle gara con quella “ufficiale” nel centro della città. Non a caso Santa Maria del Mar è sempre rimasta proprietà del popolo e non del clero, basti pensare che fino a qualche tempo fa ogni anno si svolgeva una cerimonia solenne durante la quale venivano consegnate le chiavi della cattedrale ai preti, a simboleggiare che la loro gestione era solo temporanea e revocabile.

Che genesi ha avuto il romanzo? È stato più faticoso costruire la cattedrale di Santa Maria o il libro?
Si è trattato di un lavoro davvero molto complesso per me. Se pensiamo che la chiesa di Santa Maria del Mar ha richiesto 60 anni di lavoro e il mio romanzo 5 anni, facendo le debite proporzioni direi che è stato più difficile scrivere il libro.

Il successo del tuo romanzo d’esordio ti ha sorpreso?
Sorpreso è dir poco. Non mi sarei mai e poi mai aspettato che un giorno sarei stato qui a Roma a concedere un’intervista a te, non avrei mai sognato di girare il mondo per presentare un mio libro, di incontrare migliaia di persone che conoscono ciò che ho scritto, che vogliono parlare con me... grandioso.

Possibile che la risposta a chi invoca il famoso scontro di civiltà, alle tensioni tra Islam e Occidente in realtà sia sempre stata davanti ai nostri occhi e nessuno se ne accorga? La soluzione è davvero l’incontro, la fusione, la tolleranza reciproca? E Hernando - il protagonista del tuo secondo romanzo La mano di Fatima - è il simbolo di tutto questo?
So solo che Hernando questo simbolo vorrebbe esserlo: lo spirito del romanzo è la ricerca della tolleranza, proprio ciò che predicavano e praticavano i musulmani nel XVI secolo. E comunque sì, è davanti ai nostri occhi ma non troveremo mai una soluzione a queste tensioni finché non si raggiungerà un punto d’incontro, evidenziando più le cose che ci uniscono piuttosto che quelle che ci dividono. Ma per questo occorre la conoscenza, la cultura - e la gente ahinoi non ha né l’una né l’altra. Si tratta di un risultato che non verrà dal cielo, insomma: dobbiamo lavorare duro per conquistarlo.

Quanto la situazione dei moriscos del XVI secolo assomiglia a quella degli immigranti extracomunitari nell’Europa di oggi?
Molto poco. Innanzitutto i moriscos erano spagnoli in tutto e per tutto, erano una comunità di contadini che viveva in Spagna da 8 secoli coltivando la terra e allevando il bestiame, l’unica differenza tra loro e gli altri spgnoli era la religione. Va anche detto che allora i diritti civili erano quello che erano, oggi la situazione è molto più complessa perché gli immigrati possono diventare un problema se non rispettano le regole di convivenza civile, che nulla c’entrano con la religione.

Si tratta di una vicenda storica poco conosciuta. Pensi ci sia stata una sorta di rimozione nella cultura spagnola?
Ipotizzo - ma è una mia illazione - che durante la dittatura Francisco Franco in nome dei suoi notoriamente eccellenti rapporti col mondo arabo abbia voluto passare la spugna su un episodio così scomodo.

Sappiamo che per scrivere La mano di Fatima ti sei documentato molto. Ma a naso hai consultato più libri scritti dal punto di vista cristiano che musulmano: non è un po’ un limite?
In un certo sì, è stato un limite. Nel senso che se avessi potuto accedere alla versione musulmana della storia dei moriscos sicuramente sarebbe stata molto diversa da quella cristiana. Però ho cercato di estrapolare la verità dai documenti storici depurandola dall’enfasi cristiana, sapendo che se trovavo cose positive sui moriscos nei testi di autori cristiani dovevano essere vere per forza! Poi ci sono circa 4 o 5 saggi moderni sull’argomento, abbastanza approfonditi, e io li ho letti tutti: cercando la verità credo di essere riuscito a mantenere un certo equilibrio...

A questo punto della tua carriera ti senti più avvocato o più scrittore?
L’importante è sentirmi avvocato quando faccio l’avvocato e scrittore quando faccio lo scrittore. Credo però che sia impossibile dopo trent’anni di onorata carriera non sentirmi più avvocato... anche se oggi, dopo il mio secondo romanzo, inizio decismente a sentirmi più scrittore di prima.

Dopo il successo la tua vita è cambiata. È cambiato anche il tuo modo di scrivere?
No, cambiato direi di no. Non è una scrittura che nasce dallo studio, non lo è stata in partenza e non lo è nemmeno ora. Al massimo si rispecchiano nella mia scrittura la mia esperienza, la mia diversa maturità. E poi diciamoci la verità, ho cercato di non cambiare nulla di una formula che mi ha dato il successo.

So che non ami molto l’ambiente letterario: forse è anche per questo che continui a fare una vita molto separata, molto slegata da un certo giro?
Non è tanto questione di voler evitare l’ambiente letterario, è che continuo a fare un altro mestiere. Quelli che fanno gli scrittori di mestiere tengono conferenze, partecipano a talk-show, fanno presentazioni a raffica. Io declino il 90% di questi inviti ma non ho diffidenza verso le persone dell’ambiente letterario, sono perlopiù persone simpatiche e incantevoli. Ma per passare più tempo con loro dovrei smettere di fare l’avvocato, tutto qua.

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