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Cronache dalle terre di Scarciafratta

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Clinica convenzionata Villa Adriatica, casa di riposo. È la notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969. Nella sala comune un televisore trasmette le immagini dell’allunaggio. Chissà perché l’anziano ospite Ruscitti Domenico, per tutti “Mengo”, dopo una scettica “sguardata” allo schermo, volta le spalle e dirige gli occhi verso il mare. Lui che il mare non gli era mai andato tanto a genio di guardarlo. Sbiascica parole vedendo cose che non si possono vedere, a dire cose difficili da ascoltare. È così che Mengo se ne va. Del resto: se la luna non è più solo sua, che ci resta a fare sulla terra… Non ci vuole molto: “nessuno vedrà più un mezzo uomo che sbarcolla, chiuso in un cappottaccio arrangiaticcio, che ci manca pure un bottone, che certi giorni di ventilara te lo metti pure d’estate, che senti sempre freddo e non si sa perché, come se la morte ti soffiasse, a dispetto, dietro al cozzetto”. Tanto parlare con la luna era cosa “da scemi” pure prima. Come era stata cosa da scemi, tanti anni addietro, l’essere rimasto sulla rocca di Scarciafratta, con il cane Sciambricò, a parlare con chissà chi, oltre che con la luna. Tutti i paesani se n’erano andati via dopo la “Cosa brutta”. Ma lui li vedeva ancora. Era rimasto lì dopo il terremoto e lo spopolamento a respirare l’odore del tramonto, il sapore del fuoco, l’allegria dei ceci, lo sguardo del vino. Nel concreto c’era rimasto il Registro anagrafico doviziosamente tenuto dall’impeccabile compianto impiegato Pigliapoco Violante. Con dentro a quelle carte morte e vive, tutte le voci di Scarciafratta: Malina “la magara”, la bella Incantalupo Ninetta, il Maestro di musica Visidoro Forchetta, il quale avrebbe anelato a costituire una banda musicale di orfani. Non per filantropia, ma unicamente per cavarsi dai coglioni le pressioni dei genitori degli allievi, fino allo quarto grado di parentela. Ma mica parlavano solo le carte: per conto dell’amico di sempre, Pizzacalla Pinuccio, parlava invece la sirena grigia di Marcinelle. Voci di futuribile memoria le quali, prima del verificarsi degli eventi, avevano già memoria della propria fine. Una premonizione postuma che è già “ricordanza” in divenire…

Che bella musica. Dopo il premio Campiello 2020 vinto con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liboro, Remo Rapino si conferma ai vertici della letteratura italiana attuale con questo nuovo romanzo che vanta una peculiare connotazione a livello di invenzione e reinvenzione del linguaggio. Una narrazione intrisa di visioni liriche, ricca di poesia, che incarna a pieno la letteratura dell’ascolto. È più che evidente che l’incedere dell’autore nasce dall’ascolto ed è volto ad essere a propria volta ascoltato: musica. Nella forma Rapino dialettizza il parlato attingendo più alla psicologia del dialetto che non al mero trasferimento di termini vernacolari nell’italiano. Un linguaggio che pesca alle radici concedendosi licenze che raggiungono totale e completa efficacia formale, sostanziale, funzionale e sensoriale nella composizione (si parla di musica, no?). La narrazione che passa di personaggio in personaggio, da una soggettiva a un’altra, potrebbe richiamare -nella forma- il film Rashōmon di Kurosawa anche se essendo uno (Mengo), il personaggio al centro della narrazione, ancor più calzante è il paragone cinematografico con la lunga sequenza di Mamma Roma di Pasolini, nella quale vediamo Anna Magnani procedere verso lo spettatore. Attorniata da altre figure del suo mondo –apparizioni? - che entrano ed escono di scena in una carrellata a ritroso, dando l’effetto di una visione sospesa nel tempo. Il romanzo di Rapino è un continuo andare avanti e indietro in un calendario che segna e marca una memoria continuamente perduta (la “scordanza la definirebbe l’autore), ritrovata e, forse, reinventata. Anche il paragone letterario con l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters è stato più volte, a ragione per alcuni versi, messo sul tavolo dalla critica. Ma a differenza dell’Antologia statunitense, le “voci” di Rapino non sono scolpite in lapide una volta e per sempre. Smettendola coi paragoni c’è invece da sottolineare l’unicità (anche linguistico-espressiva, come s’è detto) di Rapino, tanto che l’autore si erge scherzosamente a ideologo-fondatore-propugnatore di una nuova corrente letteraria e di pensiero: lo “Spasulatismo”. Sostenuto e coadiuvato dall’amico e ottimo collega Fabio Stassi che in questo romanzo figura come editor (e che Editor…), lo “Spasulatismo” (da “spasulati”, spiantati, vagabondi) sostanzia la poesia dell’abbandono, l’estetica dell’emarginazione frutto dello sradicamento, la continua perdita e ricerca delle radici. Necessaria, vitale. Un’orfanità che anela al conforto avendo imparato comunque a convivere con sé stessa. Rappresentando al contempo una messa in discussione dei codici sociali dominanti. Scarciafratta è un paese immaginario che potrebbe esistere. E quindi esiste. È pane buono quello di Rapino. È vino vero, vivo. È cibo condiviso. È musica. E che bella musica: quella di una banda di orfani.