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Post mortem

Post mortem

Chicago. Mercy Soul Hospital, decimo piano, Psichiatria. La piccola Lucy mostra al dottor Vic il braccio dove è evidente un morso profondo, certo di un animale. È necessario mettere qualche punto ma Vic è stranamente turbato. Lei assomiglia moltissimo a sua sorella, morta quando lui aveva cinque anni, una circostanza che gli ha lasciato un ricordo vivido e terribile che ogni tanto torna a visitarlo, come ora. Lucy sostiene di essere stata inseguita lungo uno dei corridoi da qualcuno che è riuscito a morderla ma che lei è riuscita a seminare perché “lento come una lumaca!”. Potrebbe trattarsi dei cani randagi che si vedono ogni tanto vagare intorno all’ospedale che magari sono entrati e si sono nascosti da qualche parte? In ogni caso Vic crede sia il caso di andare a controllare… Si ricorda di un gioco che facevano da bambini, lui, Bruce, e Dave, per vincere si doveva restare chiusi dentro una cassa, come fosse una bara, per dieci minuti. Quella volta però Bruce si era allontanato e Dave era rimasto rinchiuso per un’ora nella cassapanca dello zio James, nel fienile degli attrezzi. Poi erano cresciuti, c’è stata la musica e il loro gruppo heavy metal, i Blue Demons, poi gli hotel, le ragazze, gli acidi. Ma cosa è successo adesso? si chiede Bruce quella notte dell’ultimo dell’anno. Non si ricorda niente, non può muoversi, vorrebbe urlare ma non lo fa; resta in silenzio, nel buio soffocante e opprimente, e sente Dave che canticchia un motivetto militare. Canticchia e inchioda… Steven Todd è uno scrittore di storie horror. Le sue notti le passa immaginando i suoi personaggi, un po’ parla con loro mentre pensa a cosa possa fargli succedere. Anche quella notte sta scrivendo, è un racconto che parla di bambini succhiasangue; ogni tanto risponde a sua moglie che lo richiama dalla camera da letto. Poi sbocconcella un toast, sorride quando ha una buona idea, scrive qualche battuta, quindi decide di alzarsi per versarsi un Johnny Walker. Sua moglie. Sono stati felici lui e Jennifer per un anno circa dopo il matrimonio; poi lei ha cominciato a parlare insistentemente di fare un bambino. Quindi le cose non sono più andate tanto bene. È così che quella notte qualche ricordo triste comincia a mescolarsi con la trama che sta nascendo al computer. L’ultima volta che ha guardato l’orologio erano le due, adesso Steven non sa che sta succedendo. Forse sta sognando? Jennifer gli è addosso e lo fissa con i suoi bellissimi occhi blu, ma nel suo sorriso brillano dentini aguzzi che all’improvviso gli tranciano di netto la carotide. “Svegliati, Steven! Svegliati!” gli urla una parte cosciente di sé. Niente, lui non riesce proprio a svegliarsi. Poi la voce di Jen, “Credo di essere nel tuo sogno, Steven… O forse no?”…

Daniela Estrafallaces, leccese classe 1979, pubblicista, ha scritto recensioni cinematografiche e racconti. Al suo esordio con Post mortem pubblica una raccolta di dieci racconti horror, protagoniste dei quali sono le nostre paure, quelle che ci accompagnano fin da bambini, quelle che non abbiamo mai confessato, quelle che proviamo ad esorcizzare ogni giorno; il classico mostro sotto il letto che ci impedisce di sporgere i piedi oltre il lenzuolo. Ecco che allora, leggendo questi racconti, può capitare di sentirsi oppressi dalla stessa claustrofobia che prova il musicista strafatto che si ritrova chiuso in una cassa buia, o forse di provare l’angoscia dei figli che in una terribile vendetta si ritrovano a pagare le colpe dei padri, oppure ci sembrerà di vivere incubi popolati da plausibilissimi incidenti d’auto e divorzi mescolati però con protagonisti zombie e polpi umani con tanto di tentacoli e ventose, o magari ci sentiremo risucchiare nella inquietante atmosfera di una festa per bambini con pagliacci tristi e strane mongolfiere. In queste storie capita spesso che sonno, sogno e realtà si confondano e i protagonisti non riescano a svegliarsi da questi stati confusi – non vi ricorda qualcosa che capita tantissime volte anche a noi?! – e ad avere la meglio sui mostri partoriti dalla loro mente; di frequente, poi, i luoghi in cui gli incubi prendono forma sono manicomi e ospedali che celano spaventosi segreti, ovvero luoghi nei quali la fragilità umana è normalmente più esposta, le difese più deboli, e per questo ci fanno paura sempre, in maniera più o meno cosciente e consapevole. Vittime di allucinazioni, ai protagonisti tocca soccombervi senza alcuna possibilità di salvezza e, se in queste storie non mancano le note splatter, i mostri orridi, gli zombie e i demoni che lottano con stranissimi angeli, è soprattutto l’imponderabile, l’ignoto, la paura di ciò che non si conosce e non si controlla a dominare nella narrazione e nella scrittura visionaria ed evocativa della autrice. Questa paura evocata, inoltre, spesso trova un’eco che la dilata ancora di più in finali irrisolti che lasciano il lettore spiazzato e con il fiato sospeso e spezzato, aprendo scenari lasciati all’immaginazione e alle ombre che è capace di suscitare. Quello che però risulta eclatante in questa lettura e si connota come cifra personale di Daniela Estrafallaces è l’occhio costantemente rivolto ad un panorama d’oltreoceano, un gusto orientato verso paesaggi urbani e non urbani molto americani, per cui le storie a volte hanno sfondi da western, altre ricordano le ambientazioni care al maestro Stephen King, e traboccano di particolari che vanno dall’onnipresente (nelle storie americane, appunto) antidolorifico Vicodin, agli scantinati che celano cose spaventose cui si accede scendendo scale buie, a negozi di giocattoli che ricordano vagamente filoni di libri e film à la Annabelle – le storie ispirate dai racconti dei demonologi Ed e Lorraine Warren -, a soldati tornati dal Vietnam, a personaggi innamorati delle Giubbe Blu. I protagonisti e i luoghi di questi dieci racconti sono, insomma, americani che più americani non si può e questa è certamente una scelta curiosa che sembra condizionare anche il linguaggio, lo stile e il modo di raccontare. Dice l’autrice nella Introduzione che “Le paure non si uccidono perché sono creature di altri mondi che vengono spesso in pellegrinaggio nel nostro. Dietro ad una porta, sotto il letto, in cantina, in una fetta di mondo onirico portato alle estreme conseguenze tanto da non voler mollare la presa sul reale”. Queste paure, quindi, si può soltanto provare ad esorcizzarle cercando di avvicinarle, e questi racconti sono sicuramente un modo per guardarle dritto negli occhi. Un po’ alla cieca, però, perché, come dice ancora Estrafallaces, “L’idea della narrazione come spazio labirintico in cui orientarsi senza neppure una torcia è la proposta e colonna portante della raccolta”. Se amate le storie horror americane, se ancora non avete trovato il coraggio di guardare in faccia il vostro mostro sotto il letto (perché uno lo avete di sicuro), se volete fare questo viaggio senza torcia, appunto, nel labirinto delle vostre paure, questi racconti sono per voi.